Lo scoppio della guerra nel settembre 1939 aveva spiazzato il Giappone. La stipula del patto Molotov-Ribbentrop rendeva ora impossibile per i giapponesi pensare a una guerra contro l'Unione Sovietica, e il governo di Tokyo si premurò di stemperare lo stato di tensione tra le due nazioni; benché il Giappone avesse riaffermato la sua alleanza con Germania e Italia siglando il 27 settembre 1940 il patto tripartito, il 13 aprile 1941 venne firmato a Mosca un patto nippo-sovietico di non aggressione, cui i giapponesi tennero fede anche dopo l'inizio dell'attacco tedesco all'URSS
Il coinvolgimento delle potenze europee nella guerra contro la Germania lasciava quasi indifese le loro colonie nel Sud-est asiatico, territori di importanza strategica per il Giappone non solo perché ricchi di materie prime ma perché fondamentali per sostenere la resistenza della Cina: nel 1940 il 41% delle forniture belliche cinesi provenienti dall'estero passava per il porto di Haiphong nell'Indocina francese e il 31% da quello di Rangoon nella Birmania britannica, collegato a Kunming in Cina dalla cosiddetta "strada della Birmania"[46]. Nel luglio 1940 il primo ministro Mitsumasa Yonai, contrario all'alleanza con i tedeschi, fu costretto alle dimissioni e sostituito con il nazionalista moderato Fumimaro Konoe, solidale con i piani degli alti comandi militari per un'espansione verso il Sud-est asiatico e la costituzione di una "Sfera di co-prosperità della Grande Asia orientale", composta da paesi assoggettati al Giappone. I tempi per realizzare questo piano erano però ristretti: lo scoppio della guerra in Europa aveva portato a un riarmo navale degli Stati Uniti in funzione difensiva, culminato nel Two-Ocean Navy Act del 19 luglio 1940 volto a rafforzare la U.S. Navy con 18 nuove portaerei e 11 nuove navi da battaglia; benché il completamento di questo programma non fosse previsto prima del 1948, la sua realizzazione intaccava la relativa superiorità navale giapponese nel Pacifico obbligando Tokyo ad attuare il prima possibile i suoi piani di espansione
Dopo negoziati con il governo di Vichy e alcuni scontri di frontiera, tra il 24 e il 26 settembre 1940 le truppe giapponesi ottennero il permesso dalle autorità francesi di stabilire una guarnigione ad Haiphong e di costruire basi militari nella regione del Tonchino nel nord dell'Indocina. Una successiva guerra franco-thailandese (ottobre 1940 - maggio 1941) per il possesso delle regioni occidentali della Cambogia si concluse favorevolmente per i thailandesi grazie alla mediazione dei giapponesi, i quali il 29 luglio 1941 completarono la loro occupazione di fatto dell'Indocina ottenendo da Vichy la cessione della base navale della baia di Cam Ranh, degli aeroporti intorno a Saigon e delle eccedenze di materie prime prodotte dalla regione; le autorità coloniali francesi furono mantenute, ma erano di fatto state private dei loro poteri reali
Dopo il lancio dell'operazione Barbarossa nel giugno 1941, che ormai escludeva qualunque possibilità di un intervento sovietico in Asia, il governo giapponese prese la decisione finale di condurre la sua guerra di espansione nel Sud-est asiatico[50][51]. Le manovre espansionistiche nipponiche trovarono però un'ostilità sempre più manifesta da parte del governo statunitense: dopo che già nel luglio 1940 erano state varate restrizioni al commercio tra le due nazioni, nel luglio 1941 il presidente Roosevelt decretò, fino al completo ritiro dei reparti di Tokyo dalla Cina e dall'Indocina, il congelamento dei beni nipponici presenti negli Stati Uniti e un embargo totale sulle esportazioni di petrolio verso il Giappone, decisioni seguite nei giorni successivi da misure analoghe da parte dei governi britannico e olandese. Queste misure furono devastanti per l'economia giapponese, privata in un sol colpo del 90% delle sue importazioni di petrolio e del 75% del suo commercio con l'estero, forzando il governo di Tokyo ad agire: il governo di Konoe, favorevole a evitare la guerra con gli Stati Uniti e a risolvere la disputa con i negoziati, fu costretto alle dimissioni il 16 ottobre e rimpiazzato da un gabinetto guidato dal generale Hideki Tōjō, fautore della guerra a qualunque costo
Mentre trattative ormai inutili continuavano tra Tokyo e Washington, lo stato maggiore giapponese stese i suoi piani definitivi per una guerra contro gli Stati Uniti nel Pacifico. L'ammiraglio Isoroku Yamamoto, comandante della flotta da battaglia nipponica, concepì un piano ambizioso: per dare tempo alle forze giapponesi di occupare l'Asia orientale e stabilire un perimetro difensivo lungo il Pacifico a protezione della madrepatria, la flotta statunitense doveva essere resa inoffensiva nelle prime ore di guerra con un attacco aereo a sorpresa contro il suo principale ancoraggio di Pearl Harbor nelle Hawaii, portato dalla flotta di portaerei dell'ammiraglio Chūichi Nagumo. L'attacco venne sferrato la mattina del 7 dicembre 1941 e ottenne un grande successo: anche se le portaerei statunitensi evitarono qualunque danno perché lontane da Pearl Harbor, tutte e otto le navi da battaglia della United States Pacific Fleet furono colpite e neutralizzate. Immediata fu la risposta degli Stati Uniti, che il giorno dopo dichiararono guerra al Giappone imitati subito dal Regno Unito e dalle nazioni alleate; il quadro fu completato, l'11 dicembre, dalla dichiarazione di guerra agli Stati Uniti da parte di Germania e Italia.