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Il pane nella pittura

Il pane nella pittura

 


Safet Zec
Non si può ritenere il pane un soggetto di per sé interessante dal punto di vista pittorico, sia perché non ha una forma caratteristica, essendoci centinaia di tipi di pane legati alle diverse aree geografiche, sia perché, per essere riconoscibile nel momento in cui viene tradotto in immagine, obbliga l’artista a una ristretta gamma cromatica. Ma, nonostante la semplicità estrema di questo alimento, non c’è nulla che abbia altrettanta forza simbolica, e la sua presenza nella storia della pittura occidentale è così capillare che è ben difficile scegliere gli esempi attraverso i quali cercare di definire l’evoluzione nei secoli di questo soggetto.
A partire dagli affreschi trovati nelle tombe egiziane che raffigurano la coltivazione del grano, la macinazione, la preparazione e la cottura del pane, in tutte le epoche e in tutte le civiltà si incontrano innumerevoli documenti figurativi che si riferiscono alla preparazione o al consumo di questo fondamentale alimento.


Pompei
Si può citare tra quelli più interessanti l’affresco con la “bottega di panettiere” proveniente da Pompei, ora al Museo Archeologico Nazionale di Napoli oppure il bellissimo ciclo di affreschi del 1480 circa che decora la cosiddetta “Sala del Pane” del Castello di Bentivoglio, nelle vicinanze di Bologna, in cui si racconta la storia della panificazione. E, parlando dei mestieri legati al pane, piace ricordare che uno dei capolavori del Rinascimento italiano è la celebre “Fornarina” di Raffaello (1518), la bellissima donna amata dall’artista che deve il suo soprannome al fatto di essere stata la figlia di un fornaio di Trastevere.
Se il pane è così importante nella storia dell’arte, però, è per la diffusione di alcuni soggetti del Nuovo Testamento come “Cristo in casa di Marta e Maria”, “Nozze di Cana”, “Ultima cena”, “Cena di Emmaus” e il “Miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci”.

Domenico Ghirlandaio 
L’”Ultima cena”, uno degli episodi più importanti della vicenda di Cristo, si riferisce alla cena con cui Gesù celebrò la Pasqua ebraica con gli apostoli prima di morire, ed è riportato nei vangeli di Matteo, Marco, Luca senza, tuttavia, una descrizione precisa dell’ambiente e degli alimenti, al di fuori del pane e del vino. Questo ha dato modo agli artisti di tutte le epoche di esercitare liberamente la fantasia sulla ricostruzione visiva dell’episodio, che ha migliaia di versioni pittoriche, tanto da costituire di per sé una singolare storia dell’arte e del costume. Anche prima dello straordinario “Cenacolo” leonardesco (1499) , troviamo originali interpretazioni dell’ultima cena che meritano una citazione, dal mosaico del VI secolo presente nella chiesa di Sant’Apollinare Nuovo di Ravenna (VI secolo), che rispecchia la descrizione evangelica della tavola a semicerchio, all’affresco di Giotto alla Cappella degli Scrovegni (1305), dove il pane appena si scorge tra le masse delle figure degli apostoli seduti di spalle, alla raffinata ambientazione ideata dal Ghirlandaio (1480) per il refettorio della Chiesa d’Ognissanti, in cui, sullo sfondo di una loggia che lascia intravvedere un bellissimo giardino, gli apostoli si dispongono armoniosamente attorno a una tavola coperta da una candida tovaglia sfrangiata e ricamata a punto Assisi che rappresenta realisticamente le tavole fiorentine del Quattrocento. 

Jacopo Bassano
Coerentemente, anche la mensa non è così povera come nel Medioevo. Il vino è contenuto in eleganti brocche di vetro e il cibo comprende, assieme al pane, taglieri con formaggio e prosciutto e frutta.
Il tema ritorna anche nei secoli successivi e segue l’evoluzione dei tempi e dei linguaggi: un vero capolavoro è l’”Ultima cena” di Jacopo Bassano (1542), ora alla Galleria Borghese, dove, scomparsa la serenità quattrocentesca, la scena assume un’intonazione drammatica, con una ripresa molto ravvicinata e forti contrasti cromatici che fanno risaltare l’inquietudine degli apostoli, rozzi pescatori scalzi che siedono scomposti attorno alla tavola. La luce intensa viene riflettuta dal bianco della tovaglia e dà risalto plastico agli oggetti, tra cui la pagnotta, che non è più una forma stilizzata, ma è un brano di realtà, come tutti i particolari della scena.

Caravaggio, Cena in Emmaus
Un altro tema evangelico che offre allo studioso la possibilità di seguire l’evoluzione delle abitudini alimentari è quello delle “Nozze di Cana”, molto praticato dagli artisti di tutti i tempi anche per i numerosi spunti figurativi che derivavano dai banchetti di nozze. Così possiamo confrontare la semplicità della versione di Giotto, sempre agli Scrovegni, con la sontuosa, monumentale rappresentazione di Paolo Veronese (quasi dieci metri, ora al Louvre) e con il movimento e la teatralità della scena di Tintoretto, in un percorso che sembra condurre lo spettatore dall’essenzialità, quasi astratta, del Medioevo al realismo manierista che sfocerà nella ridondanza del barocco. Dobbiamo al Caravaggio, e alle sue versioni della “Cena in Emmaus” però, la capacità di rendere il pane davvero protagonista della tela, con un risalto della mensa che nessuno in precedenza aveva saputo rendere così suggestivo. Alla base c’è la sua capacità di dare alla luce una funzione rivelatrice, facendo affiorare gli oggetti dal buio e creando forti contrasti, dai quali si sprigiona una grande tensione che coinvolge profondamente chi osserva.



Annibale Carracci, Il mangiafagioli 
Ma l’immagine del pane nella pittura non è solo legata all’arte sacra, poiché quest’elemento segna anche la lunga strada che la pittura percorre per inserire, accanto agli scopi devozionali, la descrizione della vita quotidiana. Anche qui gli esempi sono innumerevoli, dal “Mangiafagioli” di Annibale Carracci (1583) che ci svela quale era il menù quotidiano di un contadino del Cinquecento, dove il pane è fondamentale come dimostra anche il gesto protettivo dell’uomo che tiene addirittura la mano posata sulla pagnotta, quasi timoroso di vedersela portare via, alle nature morte del Seicento che, fra l’Olanda, l’Italia e la Spagna, sulla scia di Caravaggio, hanno dato dignità di soggetto autonomo al cibo, ai prodotti della terra e agli oggetti d’uso.
Georg Flegel
Il pane ricorre costantemente in queste composizioni, per la sua forma, per il colore caldo che serve all’equilibrio della gamma cromatica, per il suo valore simbolico di cibo per eccellenza. Da Georg Flegel a Peter Claesz, gli autori nordici, con precisione quasi maniacale, non dimenticano mai di inserirlo nelle nature morte, ma forse alla sensibilità moderna si addice più il realismo di certi pittori italiani, come Giacomo Ceruti detto il Pitocchetto (1698-1797) che nella sua celebre natura morta “Pane, salame e noci” riesce a inserire non solo il virtuosismo della perfetta imitazione ma anche una componente sentimentale, “umana”, che ci colpisce più profondamente.
Giacomo Ceruti, il Pitocchetto 
Si potrebbe andare avanti ancora con decine e decine di esempi perché dal Seicento all’età contemporanea il pane è un elemento sempre presente nell’arte, visto da lontano o da vicino (pensiamo alla “Colazione sull’erba” di Manet o al pane ferrarese della pittura metafisica), come emblema della realtà o come simbolo (fu un tema importante anche per il surrealismo, in particolare per Salvador Dalì), ma la conclusione, in ogni caso e in ogni tempo, è che il pane rappresenta la vita stessa, la capacità dell’uomo di pensare, di servirsi della natura, di soddisfare con intelligenza i propri bisogni.

dal volume "Trieste, la tradizione a tavola", a cura di G. Relja, E. Rizzi, M. Rondi, Edizioni "Italo Svevo", Trieste, 2011
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